Anche la curiosità dello scoiattolo si era placata ormai. Quella cosa inaspettata che all’inizio lo aveva messo a disagio e alla quale aveva girato attorno incuriosito non si muoveva, però era viva.
Meditare è un piacere per il quale, da qualche tempo, si era ricavato uno spazio irrinunciabile. Quel giorno lo stava facendo sulla panchina del parco, nell’ora in cui il mondo indaffarato correva attorno, lasciando il parco vuoto, per un breve momento, prima di sfruttarlo per sfogare le proprie tensioni, con la corsa, le passeggiate, i giochi mentre il brusio, come il rumore delle onde sulla spiaggia, marcava il sottofondo. Ad occhi chiusi sentiva lo scoiattolo avvicinarsi. Il ticchettio delle zampette sulla corteccia dell’albero, il ghiaino scricchiolante sotto l’esile peso, e sorrise. Oggi aveva uno spettatore.
Meditare, fermarsi completamente, non era mai stata una cosa difficile tranne che per i sensi di colpa. Fin dall’infanzia chiunque avesse conosciuto, a partire dalle persone più care, famigliari inclusi, gli avevano insegnato che fermarsi significava perdere tempo, lasciare il lavoro agli altri, venir meno ai propri doveri. Insomma, fermarsi non era una bella cosa, men che meno fermarsi mentre tutti gli altri correvano. L’unico diritto a fermarsi era il ristoro dopo una intensa giornata lavorativa e serviva a far riposare il corpo, non certo la mente. E ogni tanto quegli echi si ripresentavano facendolo sentire a disagio, quasi sbagliato. Ma duravano poco. Distolse l’attenzione dallo scoiattolo che a sua volta la distolse da lui tornando a curiosare altrove. Nessun punto di riferimento sul quale focalizzare il pensiero e quindi pensiero espanso come una sfera tutto attorno all’infinito. Ora percepiva tutto contemporaneamente e allo stesso tempo nulla era più importante del resto. Fermo fuori e statico dentro mentre il mondo vibrava di vita. La prima volta che percepì l’ostacolo, diversi anni prima, gli sembrò come una porta senza serratura, chiusa e inviolabile, nera come tutto il resto dell’immagine senza dettagli. Passò del tempo prima che scoprisse cosa apriva quella porta, trasformando il nero in immagini. Non esistevano parole magiche o formule. La porta era chiusa da un fattore e solo l’opposto di quel fattore la poteva aprire. La responsabilità.
Scoprì che il forte desiderio di chiudere il proprio passato dietro di sé, l’intenso desiderio di non assumersene mai e per nessun motivo la paternità, creava quello schermo nero. Scoprì anche che l’unica cosa che veniva tolta era la consapevolezza, non certo l’influenza che le proprie azioni riuscivano comunque a mantenere. Dubbi, sensazioni, paure, idee bizzarre e istinti improvvisi, tutto proveniva da oltre la nera cortina. Ciò che era stato continuava ad essere e lo sarebbe stato per sempre fino a quando non lo avesse messo a posto e per metterlo a posto bisognava comprenderlo e vederlo, e per vederlo si doveva accettarne la paternità, anche questo scoprì. Imparò anche a distinguere fra immaginazione e ricordo. All’inizio la somiglianza lo aveva ingannato, ma nessuna cosa immaginata porta con sé problemi e soluzioni, così quando analizzata non provoca ne disagio ne sollievo e si trasforma in una bolla si sapone. Imparò quindi a ricordare, a rivivere, a sapere che ciò che percepiva era vero perché vero lo era stato, da qualche parte, in qualche tempo.
Vide un corpo a terra, sanguinante, la schiena squarciata da una lama, e seppe che era lui. Vide un ragazzo brandire una spada e gridare a squarciagola contro gli aggressori, che soddisfatti si stavano ritirando. Sentì le suppliche e le preghiere e vide le lacrime. Poi arrivò la maledizione, come un tuono. Il giovane scudiero aveva promesso sul suo dio di vendicare l’uccisione del suo padrone. Avrebbe ucciso il nemico, adoratore di un dio diverso e a suo dire crudele. Nell’immagine successiva lo rivide, più vecchio, il volto trasformato in un ghigno mentre calava la spada. Il braccio che impugnava lo scudo piccolo e rotondo si staccò e seppe che era il suo, alzò lo sguardo in tempo per imprimere l’immagine di quella furia e sentire la voce carica di rabbia gridare vendetta per l’assassinio dell’antico padrone e amico, la lama scese per l’ultima volta. Fermo sulla panchina, lo scoiattolo ormai distante, sorrise, il volto illuminato da una luce interiore, più intensa di quella solare. Un motivo in più per amare il suo prossimo. Una certezza in più per aiutarlo a ritrovare se stesso. Ucciso da chi lo aveva amato, per vendicarne la morte. Vissuto sotto una bandiera prima e sotto un altra poi.
Lui lo sapeva, ognuno tornava e il bambino di cui non conosceva il nome, che fra breve avrebbe calciato il pallone nel parco, avrebbe tranquillamente potuto essere sua madre di cui i più ricordavano il volto e di cui lui sentiva l’essenza. Quanto rispetto e amore ogni persona avrebbe per il prossimo, nel dubbio che si trattasse della persona amata? Di colui che un giorno sarà il proprio genitore o il proprio figlio? Quanti vessilli e confini cadrebbero sommersi dalla loro inutilità se ogni persona fosse cosciente che la vita è vita ad di la delle sue mutevoli forme?
Riaprì gli occhi e il parco gli sorrise. Si alzò e si incamminò lungo il viale in ombra, le prime mamme stavano arrivando. Passò davanti a un passeggino e fatti alcuni passi si fermò girandosi per osservare quel batuffolo che dormiva beato, poi guardò la madre che indaffarata con il cellulare non si accorse di nulla. Forse un giorno i ruoli si sarebbero invertiti. Aveva la tentazione di dire a quella mamma indaffarata “trattalo bene, altrimenti ti negherà tutto quello che gli negherai, anche se non saprà perché, se gli fai del male ti cercherà anche se non saprà chi sta cercando ne per quale motivo, se gli imponi il tuo volere odierà le tue parole, la tua voce e ciò che gli assomiglia. Certamente giustificherà i suoi gusti e le sue opinioni in qualche modo, ignaro quanto te che non sono sue. Trattalo bene e aiutalo a scoprire quanto può di se stesso”. Ma si astenne e continuò la passeggiata. Concetto complicato la consapevolezza.